Pur d’amor volgarmente ragionando

L’eredità di Dante in Petrarca

La mostra “Pur d’Amor volgarmente ragionando. L’eredità di Dante in Petrarca” è aperta da lunedì a sabato dalle 9 alle 13, mercoledì è visitabile anche dalle 14 alle 18. È a ingresso libero, ma si può effettuare la visita guidata a richiesta, il cui costo è di € 4,00 a persona (€ 2,00 ridotto).

Viene comunque effettuata la visita guidata ogni sabato alle 11.

Per visitare il Museo è richiesta all’ingresso la certificazione verde Covid/19

Pur d’amor volgarmente ragionando
L’eredità di Dante in Petrarca

Assessore alla Cultura
Giorgio Rossi

Direttore Servizio Musei e Biblioteche
Laura Carlini Fanfogna

A cura di
Alessandra Sirugo

Collaborazione
Maria Carolina Tamberlich

Coordinamento amministrativo
Gloria Deotto

Collaborazione amministrativa
Pierpaolo Messina
Elisa Seminerio

Grafica
Lorella Klun

Foto
Franco Levi

Traduzioni
Quickline s.a.s. – Trieste

Cosa leggevano Dante e Petrarca?

Il Museo petrarchesco piccolomineo nel VII Centenario della scomparsa di Dante (1265- 1321), orienta i riflettori sull’influsso di Dante sulla poesia di Francesco Petrarca.

Il parallelo tra i due poeti resta ancor oggi centrale nella storia poetica nazionale.

Due generazioni li separano.

Francesco (1304-1374) nasce  ad Arezzo perché il padre Petracco è stato bandito come l’Alighieri dalla Repubblica fiorentina: un comune destino di esilio che Dante vive soffrendo i disagi, la povertà, la dipendenza dai signori che lo ospitano.

Petracco invece è notaio e riesce a mantenere la famiglia in crescita, trasferendosi ad Avignone. La città provenzale  diviene crocevia politico e diplomatico dal 1309, anno in cui vi si trasferisce la curia papale. Francesco frequenta lo Studio di Diritto a Bologna. Quando vi giunge nel  1320 per restarvi cinque anni,  Dante vive da tempo a Ravenna e la sua stella è già luminosa. 

Quali erano state le loro letture?

Le opere di entrambi rivelano che avevano letto e assimilato i testi biblici.

Alighieri conosceva le opere di Virgilio, avendo vissuto lunga parte dell’esilio a  Verona, sede della Biblioteca Capitolare, una delle più antiche d’Europa. Egli poteva contare su un patrimonio letterario letto e memorizzato, costituito da una dozzina di autori classici e cristiani: Virgilio, l’Ovidio delle Metamorfosi, Stazio, Lucano, l’Ars poetica di Orazio, il De amicitia di Cicerone, e da una scelta di poeti provenzali e italiani.  Se si accetta l’attribuzione a Dante del Fiore, egli aveva letto e assimilato anche il Romanzo della Rosa.

E Petrarca?

Da un foglio di guardia del codice di Parigi (lat. 2201) proveniente dalla sua libreria, scopriamo la graduatoria delle sue letture preferite: Virgilio, Lucano, Stazio, Orazio, Ovidio e Giovenale. Di Orazio ammira le Odi e in questo rovescia la graduatoria dei suoi scritti più apprezzati nel Medioevo. Tra i moderni Petrarca ha letto il trovatore Arnaut Daniel, Guittone d’Arezzo e i suo seguaci, Monte Andrea e Panuccio del Bagno, Cecco d’Ascoli, lo stilnovista Dino Frescobaldi e Boccaccio rimatore. Ma fin dagli anni giovanili sono centrali nella sua formazione le rime petrose di Alighieri e la Divina Commedia.

Dante troppo schietto?

Ne I libri dei fatti da ricordare, opera rimasta incompiuta, Petrarca narra episodi della storia sul modello dei Fatti e detti memorabili del romano Valerio Massimo (I secolo a.C. – I secolo d.C.). L’opera è un catalogo di esempi morali imperniato sulle virtù cardinali di personaggi dell’età classica, cui si aggiungono alcuni moderni, come Francesco fa nel Trionfo della Fama.

Egli descrive fra le personalità del Medioevo Roberto d’Angiò, papa Clemente VI e Dante. Ci lascia il ritratto dell’Alighieri come di un grande autore volgare, non sempre apprezzato dai principi per il carattere orgoglioso e schietto. Racconta infatti che il poeta in esilio è ben accolto da Cangrande della Scala a Verona, ma presto viene messo da parte. La corte è frequentata da istrioni e fannulloni, uno dei quali tanto divertente quanto invadente. Cangrande sospetta che Dante non sopporti l’esuberante commensale e lo mette in una situazione imbarazzante. Chiama l’ospite insolente, lo elogia e osserva : “Mi stupisco che costui, pur essendo demente, piaccia a tutti, a differenza di te, che sei chiamato sapiente”. Affermazione alla quale il poeta replica che la gente prova simpatia per chi gli è affine: attribuisce a Cangrande la bassezza d’animo del suo ospite, una provocazione imperdonabile ed infatti Dante lascia Verona nel 1318.

Francesco aggiunge poi l’episodio in cui l’Alighieri siede alla tavola di una famiglia nobile e il signore già alticcio e sudato per l’eccesso di cibo, racconta sciocchezze, mentre Dante è silenzioso. L’ospite chiede quindi la sua approvazione: “Non sai forse che chi dice il vero non si affatica?” osservazione alla quale il poeta replica tagliente: “Ed io che mi stupivo da dove ti venisse tanto sudore”.

I Dante e Petrarca da Como a Minneapolis

Nel Ritratto di Guido d’Arezzo, Cino da Pistoia, Francesco Petrarca, Zanobi da Strada, Dante Alighieri, Giovanni Boccaccio, disegno di anonimo artista, l’autore della Divina Commedia è seduto su una sedia in atto di mostrare un libro aperto a Giovanni Boccaccio, visibile dietro le sue spalle. Alla sua sinistra Francesco Petrarca, con un volume in grembo, sembra richiedere con la mano la sua attenzione, un riferimento al rapporto di confronto ed emulazione che Petrarca sentiva verso l’autore della Divina Commedia. In calce al disegno è segnata una scritta a matita: “Tavola del Vasari/ Galleria del Co. Giovio a Como”. Già Attilio Hortis nel Catalogo delle Opere di Francesco Petrarca esistenti nella Petrarchesca Rossettiana di Trieste (Trieste 1874) indica che la tavola originale è opera di Giorgio Vasari (Arezzo 1511-Firenze 1574) dipinta per la Galleria Giovio. In effetti Vasari scrive di aver ritratto i due poeti ne Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori, e architettori (I 23). Hortis collega così il dipinto alla villa-museo del vescovo e storico Paolo Giovio (Como 1483 –Firenze 1552) a Borgovico sul Lago di Como. A tal proposito Giovio pubblica gli Elogi dei letterati illustri (1546), in cui compaiono anche Dante e Petrarca.

Nel catalogo dell’ “Institute of Art di Minneapolis”, pubblicato in rete, si riconosce il dipinto originale in un olio su tavola intitolato Six Tuscan poets e datato 1544 (132.8 × 131.1 cm). Ha compiuto un lungo viaggio dall’Italia quando il lascito di Paolo Giovio nel 1586 fu destinato al conte Francesco Giovio e poi al Duca d’Orleans.

I poeti rappresentati nella Divina Commedia.

Dante e Petrarca nella Commedia e nei Trionfi si mostrano consapevoli che la tradizione classica latina e la poesia in volgare sono il punto di riferimento della loro opera. La considerazione per i poeti della tradizione trapela dai ritratti che ne lasciano. Dante si descrive commosso nell’udire la voce di Virgilio, sua guida nell’Inferno e nel Purgatorio. Lo definisce onore e luce degli altri poeti, maestro della poesia epica (Inferno I 67-87) e gli fa presentare l’ombra di Orazio, con Ovidio e Lucano nel Limbo (Inferno IV 85-93). Tra i poeti moderni Dante celebra i trovatori provenzali e i poeti italiani delle generazioni precedenti nel settimo girone del Purgatorio, dove i lussuriosi camminano all’interno di un muro di fiamme che circonda l’intera cornice, narrando esempi di castità e lussuria punita (Purgatorio XXVI 92-148). Appare  il bolognese Guido Guinizelli, cui è risparmiato l’Inferno  per essersi pentito in punto di morte. Dante lo chiama “Il padre mio e delli altri miei miglior che mai rime d’amore usar dolci e leggiadre”. Gli compare accanto Arnaut Daniel, poeta provenzale della seconda metà del XII secolo, esponente del trobar clus, che giudica superiore agli altri scrittori in volgare, lirici e narratori.

Le cassapanche con i Trionfi

I Trionfi di Amore, Castità e Morte

Francesco Petrarca compone il poema in volgare adottando la forma compositiva della visione, come la Divina commedia.  E’ narratore e protagonista del sogno a Valchiusa nel 1351, in cui gli appare Amore su di un carro con quattro cavalli. Egli è apostrofato da un’ombra, forse Sennuccio del Bene, che si offre di accompagnarlo e gli descrive le vittime di Amore: gli eroi della tragedia ellenica, fra i quali Ercole travestitosi da donna per avvicinare Onfale, e Leandro, morto annegato per raggiungere l’amata Ero. Riconosce poi alcuni personaggi consacrati da Dante ad esistenza letteraria. Virgilio è ricordato per gli amori pastorali cantati nelle Bucoliche e nelle Georgiche. Lo accompagnano Ovidio, Catullo, Properzio, Tibullo (T. A. IV 19-24). Fra le figure dei due forzieri è ritratto Virgilio, appeso ad una cesta dalla sua donna Fibille.

Francesco chiama Dante ad aprire con Beatrice la schiera che procede per un verde prato pur d’amor volgarmente ragionando.  Compaiono accanto a loro Cino da Pistoia e Selvaggia, Guittone d’Arezzo, Guido Guinizelli con Guido Cavalcanti, e i poeti provenzali (T. A. IV 28-60). Il poeta ricorre al verbo “ragionare”, impiegato da Dante (Purg. XXVII 53) e nel sonetto  Guido i’vorrei  che tu e Lapo ed io. Dante e Cino sono gli unici esponenti della poesia italiana che Petrarca rappresenta accanto alle loro amate, segno che il Dolce stil novo e il tema di Madonna ispiratrice di poesia sono già ben consolidati.

Nella parte bassa delle due tavole compare Aristotele, carponi sotto il dominio di Fillide. Gli è accanto Sansone, cui Dalila taglia i capelli. Il fronte di cassone in basso ha lo stemma della famiglia dei Ridolfi di Piazza e dei Cavalcanti, un discendente dei quali, Lorenzo sposò Margherita Cavalcanti nel 1467.

Nel Trionfo della Castità a Petrarca appare Laura, reduce dal duello con Amore, ritratta con un libro e un ramo d’alloro. Il suo carro è condotto da una coppia di unicorni e preceduto da sedici virtù femminili. La seguono dieci donne che testimoniarono il pudore con la loro vita. Il corteo di Amore e della Castità raggiunge il tempio della Pudicizia a Roma, dove il poeta vede il nero vessillo che anticipa la morte di Laura: è l’ora prima del 6 aprile 1348.

La Morte strappa un capello dal capo di Laura e per tutto lo spazio circostante appare una sterminata pianura disseminata di salme.

I Trionfi della Fama, del Tempo e dell’Eternità

Francesco scorge quindi dalla verde pianura la Fama, che conserva la memoria delle personalità esemplari. Il suo carro è trainato da una coppia di elefanti. Nel cassone dipinto da Domenico di Zanobi la Fama compare avvolta da un nimbo dorato a forma di mandorla, come ne L’amorosa visione (1342; cap. VI) di Giovanni Boccaccio. La Fama reca una spada nella mano destra e una bilancia nella sinistra, simboli della Giustizia.

Nella tavola della Bottega di Marco del Buono e di Apollonio di Giovanni invece la Fama è avvolta in un mantello scuro ed impugna nella destra una spada, mentre con la sinistra sorregge una sfera d’oro sulla quale è una statuetta del dio Amore.

Nel Terzo Trionfo della Fama compaiono condottieri e uomini di pensiero, guidati da scienziati e da autori classici. Tra essi sfila Virgilio accanto a Omero (T. F. III 10-17):

… e quello ardente

vecchio a cui fur le Muse tanto amiche

ch’Argo e Micena e Troia se ne sente;

questo cantò gli errori e le fatiche 

del figliuol di Laerte e d’una diva,

primo pintor delle memorie antiche.

A man a man con lui cantando giva

il Mantovan che di par seco giostra,

Il Trionfo del Tempo ha per protagonista il Sole, che accelera il suo corso nel Cielo trascinando verso il nulla gli esseri umani e il loro ricordo. Gli artisti dei due fronti di cassapanca raffigurano al centro del Trionfo Saturno, il cui carro è trainato da una coppia di cervi. Francesco vede svanire le vicende degli uomini (T. Tem. 112-117) :

Passan vostre grandezze e vostre pompe,

passan le signorie, passano i regni;

ogni cosa mortal Tempo interrompe,

e ritolta a’men buon, non dà a’ più degni;

e non pur quel di fuori il Tempo solve,

ma le vostre eloquenzie e’ vostri ingegni.

L’autore assiste infine al Trionfo dell’Eternità. Tra le anime belle e rare la più beata è destinata ad essere Laura (T. Et. 82-87)

O felici quelle anime che’n via

sono o seranno di venire al fine

di ch’io ragiono, quandunque e’si sia!

E tra l’altre leggiadre e pellegrine,

beatissima lei che Morte occise

assai di qua del natural confine!

La corte delle anime celesti comunica al poeta che il giorno del giudizio Dio riconoscerà e ricompenserà meriti e demeriti, e le anime si dirigeranno verso il luogo a loro destinato. In una cornice dorata Cristo trionfa sulla sommità del cosmo.

La lettera familiare a Giovanni Boccaccio che gli dona la Divina Commedia

Petrarca si sottrae al confronto con Dante. Nella primavera 1351 Boccaccio gli fa visita a Padova e gli rimprovera di non possedere la Commedia. Tornato a Firenze, Giovanni gliene invia una copia, ora conservata presso la Biblioteca Vaticana, il Codice vaticano latino 3199, accompagnandola con la sua epistola Italie iam certus honos.

Nel 1359 Giovanni, dopo aver fatto visita a Francesco a Milano, torna a ribadire il valore della Divina Commedia. L’amico risponde alla sollecitazione con la Lettera Familiare XXI 15, in cui sottolinea il carattere inimitabile di Dante, ma rivendica di aver cercato un’altra strada per esprimersi. Lamenta come l’autore della Commedia sia apprezzato dal volgo, che non ne coglie però la profondità. Ricorda di aver incontrato solo da bambino Dante e di come questi si diede tutto al progetto della Commedia, trascurando anche la propria famiglia per desiderio di fama.

Alighieri è stato eccezionale nel suo genere di poesia, ma l’umanista rivendica orgogliosamente di voler essere un nuovo tipo di intellettuale. Inoltre dimostra di apprezzare Dante nella Commedia e nelle Rime in volgare, ma giudica che nelle opere latine il poeta non è stato sempre alla propria altezza. Risponde di non avere posseduto la Commedia per timore di essere influenzato dall’autore e diventarne un imitatore. Se si trovano parole o espressioni nella sua poesia che rimandano all’Alighieri, questo è accaduto per caso: cerca di cancellare le tracce della sua dipendenza dall’opera in volgare di Alighieri, ma implicitamente ammette che il suo Canzoniere ne è influenzato.

Gli amici di Dante e del giovane Petrarca

Dante e Petrarca ebbero amici alcuni poeti esponenti del Dolce Stil Novo.

Il primo è ricordato dagli amici di Petrarca come Sennuccio del Bene (1270 ca– 1349), che dal 1313 subisce la confisca dei beni ed è esule da Firenze. Secondo una certa tradizione egli è addirittura corrispondente di Dante. All’autore della Commedia è attribuito il sonetto Sennuccio, la tua poca personuzza, scherzosa risposta alla canzone Amor tu sai ch’io son col capo cano, nella quale del Bene esprime il suo disagio per essersi innamorato in età avanzata. La canzone rivela che egli conosceva la Divina Commedia, perché scrive “tu se quel che a nullo amato amar perdona”, un verso in cui Dante fa esprimere a Francesca da Rimini, amante del cognato Paolo Malatesta, la forza della propria passione (Inferno V 103). Ma c’è chi ipotizza che Dante abbia notato il celebre verso nella canzone di Sennuccio e lo abbia riproposto nella Commedia.

Ad Avignone si incontra con Petrarca, con cui dialoga sino alla fine degli anni Quaranta. L’epistola sull’incoronazione del Petrarca nel 1341 in Campidoglio, stampata più volte dal 1549 come sua, risulta un falso cinquecentesco. Secondo alcuni commentatori è Sennuccio l’amico che guida Francesco nei Trionfi: “vero amico ti sonoe teco nacqui in terra Tosca”. A lui l’autore dà un posto di rilievo nel corteo dei poeti del Trionfo d’Amore (IV 33 seg.) insieme a Guido Guinizzelli e a Guido Cavalcanti.

Alla sua morte, verso il 1349 Francesco nel Canzoniere dedica all’amico di una vita il componimento Sennuccio mio, benché doglioso et solo, inserendolo nel suo pantheon poetico insieme a Guittone d’Arezzo, Cino da Pistoia, Dante e Franceschino degli Albizzi:

ma ben ti prego che’n la terza spera / Guitton saluti, et messer Cino, et Dante, / Franceschin nostro, et tutta quella schiera.

Dantisti a Trieste e lungo l’Adriatico nord-orientale

La fortuna di Dante nell’Adriatico orientale inizia con gli umanisti della generazione di Petrarca: Nicolò d’Alessio da Capodistria 1320-1393), cancelliere ad Isola d’Istria, Pietro Campenni da Tropea, che a Isola trascrive un codice commentato della Commedia, Giovanni Conversino da Ravenna, pubblico maestro a Muggia nel 1407. Datano al secolo seguente le Regole grammaticali della volgar lingua di Gianfrancesco Fortunio, dal 1497 vicegovernatore di Trieste, incentrate sulla critica testuale. Nel Seicento a Pirano il conte Marco Petronio Caldana compone la Clodias, nel cui IX canto narra il viaggio di Clotilde attraverso il Paradiso. Nel Secolo dei Lumi Gian Rinaldo Carli, nel libro IV de Le antichità italiche, si esprime a favore del volgare testimoniato dagli scritti delle persone istruite di diverse regioni, riprendendo le teorie di Dante nel De Vulgari eloquentia.

Trieste vanta un’intensa tradizione di studi nell’Ottocento per opera di collezionisti, come Domenico Rossetti e Marco Besso, scrittori – Francesco dall’Ongaro e Filippo Zamboni -, e filologi, con capofila Attilio Hortis e Salomone Morpurgo.

Domenico Rossetti, che dona incunaboli e cinquecentine dantesche alla Biblioteca Civica, pubblica a Milano “Perché Divina Commedia si appelli il Poema di Dante, dissertazione di un italiano” (1819). Francesco dall’Ongaro si stabilisce a Trieste nel 1836, divenendo direttore della rivista «La Favilla». Egli ispira alle sue convinzioni risorgimentali le Lezioni dantesche e la pubblica Lectura Dantis annunciata sulla rivista il 19 luglio 1846. Filippo Zamboni, docente nella capitale dell’Impero, scrive Gli Ezzelini, Dante e gli schiavi (1880) e Il fonografo e le stelle e la visione del Paradiso di Dante. Sogni d’un poeta triestino (1901), espressione di un gusto per le contaminazioni di letteratura e scienza applicata. Marco Besso, fondatore del Gruppo delle Assicurazioni Generali, è autore di due saggi su Dante. Amico di Nicolò Tommaseo, crea un’imponente biblioteca e dispone l’omonima Fondazione a Roma dedicata al sommo poeta. Attilio Hortis ci ha lasciato il saggio Dante e il Petrarca. Nuovi studii (Rivista europea, 1875) e la recensione di Dante, secondo la tradizione e i Novellatori di Giovanni Papanti (1873). Salomone Morpurgo, direttore della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, pubblica I codici riccardiani della Divina commedia (1893), primo dei cataloghi di manoscritti italiani da lui curati. E’ ricordato per l’originale metodo di indagine nella tradizione manoscritta e per il Supplemento al catalogo di Zambrini, Le opere volgari a stampa dei secoli XIII e XIV (1929), fondamentale per lo studio dei testi di Dante e dei primi commentatori.

Gli studi più significativi nell’ultimo secolo sono opera di Bruno Maier, autore di numerose Lecturae dantesche e curatore dal 1962 delle ristampe delle Opere dantesche di U. Cosmo. Tra gli studiosi di lingua slovena si ricorda Alojz Rebula, intellettuale cattolico, che nella raccolta di saggi Da Nicea a Trieste annovera Dante tra i suoi autori di riferimento.

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